LUCAS TORREIRA ||| Storia di un GLADIATORE

Cronache Stories - A podcast by Cronache di spogliatoio - Lunedì

A Fray Bentos la carne è un culto. È come Diego Armando Maradona per gli argentini, è come il Rinascimento qui a Firenze. La storia della mia città è nata proprio lì, tra gli stabilimenti e le fabbriche. Pensate che le hanno nominate ‘Patrimonio dell’Umanità’. Questa industria ha dato da mangiare a tanti uruguaiani. E anche alla mia famiglia. Ci passavamo spesso davanti a quella macelleria, quella che qualche anno fa ho scelto di rilevare, ristrutturare e affidare a mio padre e ai miei fratelli, in modo da dar loro un lavoro. Si chiama La 34, come il mio numero di maglia alla Sampdoria. Appena torno a casa, passo sempre la mattina a prendere le cotolette: ne vado matto, sono il mio punto debole.  Ho giocato in stadi con 80mila persone che mi osservavano, senza alcun timore. Vi farà ridere, lo so, ma non ho mai avuto il coraggio di mettermi il grembiule e andare dietro al bancone per servire i clienti: mi vergogno tremendamente. La macelleria, a dir la verità, è stata un’idea di mio padre, e sta funzionando alla grande. Un investimento azzeccato. Da qualche anno ha smesso di fare il telecronista. Era uno di quelli che urla «Goooooooooooooool», strillando la O nel microfono per almeno un minuto. La sua è stata una scalata emozionante, come la mia: è partito da una piccola radio ed è arrivato a commentare un Mondiale. Sì, quello a cui ho partecipato anche io. Un giorno arriva una mail, tutto emozionato controlla e non era la mia chiamata in Nazionale, ma il suo accredito. Sì, è arrivata prima la sua convocazione. Io non ero ancora in pianta stabile nella Celeste. Ma alla fine, pochi giorni dopo, è arrivato anche il mio turno. Era bravo a fare le telecronache, la sua esultanza al mio gol nel derby di Londra contro il Tottenham ha fatto il giro del mondo, così come quella alla rete di Biraghi con il Bologna. Gli dicevamo sempre che era uno di quei telecronisti venditori di fumo, quelli che sanno raccontare gli eventi anche quando questi non ci sono.  I miei genitori mi hanno visto partire a 16 anni. In loro era rimasto il ricordo di Lucas che scende in strada e spera che fuori piova per andare al campo e poter scivolare sul fango. Quanti vestiti gli ho fatto lavare! Giocavo a 500 metri da casa mia. Facevamo le porte con i sassi e iniziava la partita. Diverse sere sono andato a letto senza cena per aver spaccato qualche vetro nelle case  intorno. Ricordo quando entrai nella stanza di mio padre per dirgli che volevo trasferirmi a Montevideo: volevo provare a diventare un calciatore. Avevo un amico che giocava negli Wanderers, con un ottimo rapporto con la dirigenza, a cui chiesi di fare un provino. Era la mia occasione: o la va, o la spacca. Potevo cambiare la mia vita e quella della mia famiglia. Per sempre. Gli dissi: «Dai, portami, che ti costa?». Era gennaio 2013 e salii sul pullman verso la capitale. Quattro interminabili ore di viaggio, e appena arrivato subito in scena. I selezionatori volevano che andassi in attacco: feci il primo tempo ma il portiere si fece male. Li vidi parlare, alla fine si girarono verso di me: «In porta ci vai tu». Ero stanco morto, ma quella era la mia possibilità. E per fortuna li avevo già convinti con i primi 35 minuti. Mi presero.