Le spigolatrici di Millet
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Versione audio: Il quadro intitolato Le spigolatrici, opera del pittore francese Jean-François Millet (1814-1875), è considerato uno dei più alti capolavori del Realismo ottocentesco, sia per il tema sociale affrontato sia per lo stile impiegato dall’artista. Millet, fedele al suo tema preferito, ossia la vita contadina, affidò a questo quadro il risultato di dieci anni di ricerche sul tema delle spigolatrici, simbolo del proletariato rurale. Il lavoro delle spigolatrici era, in ambito contadino, il più povero, perché comportava un movimento ripetitivo e spossante: chinarsi, raccogliere, alzarsi. La spigolatura consisteva, infatti, nel recupero delle spighe cadute durante la mietitura. Sotto la calura, protette a stento da un fazzoletto sulla testa, le spigolatrici si recavano nei campi per prendere, una ad una, le spighe rimaste in terra. Questa attività veniva svolta soprattutto dalle povere donne sole, come le vedove e le orfane, oppure dalle ragazze madri che non avevano altro mezzo di sussistenza. Il rito della spigolatura si ripeteva anche dopo la vendemmia o la bacchiatura delle olive. Era così che le famiglie più povere riuscivano a procurarsi qualche sacco di farina, un po’ d’olio o pochi litri di vino. Ritroviamo soggetti analoghi, legati al tema del raccolto, in altri dipinti di Millet, come Raccolta del grano saraceno (estate), I covoni di fieno, Il riposo delle mietitrici. Un rigoroso realismo La tela con Le spigolatrici, come giustamente suggerisce il titolo, è interamente occupata, in primo piano, da tre spigolatrici, curve sul campo mietuto. Avendo la testa rivolta all’osservatore, esse voltano le spalle alla grande e ricca fattoria, di cui si intravedono i tetti, e soprattutto agli enormi covoni di grano, frutto di un raccolto abbondante e fortunato che un sovrintendente sta sorvegliando a cavallo e a cui loro, ovviamente, non hanno accesso. La linea dell’orizzonte è molto alta, delimitando il campo d’azione delle donne che appaiono confinate in primo piano. Le loro figure sono rappresentate con grande capacità d’introspezione realistica. I volti appaiono abbrutiti dalla fatica, la pelle bruciata dal sole, le mani deformate dall’estenuante lavoro; gli abiti ruvidi e opachi hanno toni cromatici bassi e cupi. I loro gesti sono come immobilizzati e d’altro canto il carattere ripetitivo del lavoro è sottolineato dal sostanziale parallelismo delle loro posizioni. La fatica di quell’umile operazione è resa magistralmente; i corpi delle donne sono così abituati alla posizione china che sembrano non potersi più rialzare, come suggerisce la figura a destra. I fili di paglia non ombreggiati brillano contro il fondo bruno della terra, cui anche le donne, con quegli abiti scuri fatti in casa, con la materia consunta delle loro stoffe, sembrano appartenere. Sul fondo, la luce intensissima e abbacinante del sole a picco rende l’atmosfera piatta e quasi polverosa. Questa straordinaria luminosità, che proietta la scena in una dimensione sacra ed eterna, è un elemento essenziale del dipinto, che non mancò d’influenzare le successive generazioni di pittori francesi, soprattutto gli impressionisti (come Pissarro e Renoir), e anche Van Gogh. La dimensione etica del lavoro Con tutta evidenza, questa scena dipinta da Millet vuole denunciare le misere condizioni di vita degli agricoltori, in un paese dove il settantacinque per cento della popolazione risiedeva ancora nelle campagne. Appare altrettanto chiaro, tuttavia, che a Millet mancò del tutto la verve polemica di Courbet. Le sue contadine sono poverissime ma non perdono mai il senso della dignità personale; con i minimi strumenti a loro disposizione, esse cercano in ogni modo di prendersi cura di sé stesse: i salva-maniche che la donna al centro si è legata alla camicia hanno il compito di proteggerne la stoffa. Niente a che vedere con gli spaccapietre di Courbet, i cui abiti cadevano a brandelli,