La Volta della Sistina di Michelangelo

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Versione audio: Nel 1508, papa Giulio II, reputando necessario un ampliamento del già ricchissimo ciclo pittorico della Cappella Sistina (commissionato alla fine del secolo precedente da suo zio Sisto IV), incaricò il grande Michelangelo (1475-1564) di affrescarne la volta, all’epoca decorata con un semplice cielo stellato realizzato da Piermatteo d’Amelia. Si trattava di una impresa titanica, perché questa copertura si estende per 680 metri quadrati. Pur essendo fortemente restio ad assumere incarichi come pittore, l’artista alla fine accettò. Michelangelo e Giulio II Michelangelo aveva ragione ad essere titubante, e alcune delle sue giustificazioni erano più che ragionevoli. Non aveva mai dipinto ad affresco, tecnica che richiedeva una sapienza straordinaria, sicché temeva di non riuscire nell’impresa e di rovinare la propria reputazione. Lavorare su una superficie orizzontale (e così ampia, per giunta) a 21 metri dal suolo aumentava, oggettivamente, i rischi di fallimento. Infine, sarebbe stato necessario organizzare un lavoro di équipe, che al Buonarroti non era affatto congeniale. L’artista, infatti, essendo fedele alla filosofia neoplatonica, riteneva che ogni opera d’arte dovesse appartenere intimamente al proprio creatore, che quindi si doveva assumere la responsabilità della sua materiale realizzazione, senza delegare alcuno ad eseguirne delle parti (come si era soliti fare nei lavori di bottega). E dipingere una superficie così vasta, da solo, era impresa che ben pochi avrebbero accettato di affrontare. A Giulio II, però, non si poteva dire di no. Il pontefice, un sessantenne dallo spirito guerriero e dal carattere di ferro, era proverbiale per gli scatti d’ira che lo assalivano quando qualcuno osava contraddirlo. E non a caso, i suoi rapporti con Michelangelo, che tendenzialmente non si piegava ai voleri di nessuno, furono sempre molto burrascosi. Più nell’apparenza, però, che nella sostanza. I due giganti erano fatti l’uno per l’altro. Giulio II aveva una ammirazione sconfinata per Michelangelo e l’artista sapeva bene di aver trovato nell’energico pontefice il suo committente ideale. Gli scontri verbali e anche fisici fra i due (pare che il papa, una volta, abbia preso lo scultore a bastonate) furono solo il vivace corollario di un rapporto privilegiato. Per tornare alla Sistina, Giulio II trovò presto la strada per ammorbidire il suo ostinatissimo artista: una parcella da capogiro, argomento cui Michelangelo fu sempre molto sensibile. I collaboratori L’artista chiamò da Firenze alcuni collaboratori che potessero aiutarlo almeno nelle questioni più pratiche: Piero di Jacopo Rosselli, che si occupò dei ponteggi e della preparazione della superficie, e poi Francesco Granacci, Giuliano Bugiardini, Aristotile da Sangallo e Jacopo di Lazzaro detto l’Indaco Vecchio. Tuttavia, nella sostanza, la realizzazione delle scene e delle figure rimase alla responsabilità del Buonarroti, che dal 1511 congedò tutti quanti rimanendo sui ponteggi con pochi garzoni. Il sonetto Michelangelo pagò quindi un prezzo personale altissimo al compimento di questa impresa: quattro anni di inesausto lavoro sostanzialmente in solitaria gli minarono gravemente il fisico, lasciandogli acciacchi permanenti da cui non si sarebbe più liberato. L’artista infatti non dipinse la volta da sdraiato, come alcuni film hanno falsamente mostrato, ma sempre in piedi e con il capo reclinato all’indietro: una posizione davvero scomodissima. Michelangelo stesso lo ricorda in un suo celebre sonetto in cui scrive: I’ho già fatto un gozzo in questo stento, coma fa l’acqua a’ gatti in Lombardia o ver d’altro paese che si sia, c’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento. La barba al cielo, e la memoria sento in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia, e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia mel fa, gocciando, un ricco pavimento. E’ lombi entrati mi son nella peccia,